"Stare bene"
L'idea di inclusione come benessere
Quando mi si chiede di provare a fornire una definizione del concetto di inclusione, propongo sempre di ragionare su un possibile sinonimo, che ritengo possa essere piuttosto rappresentativo: quello di benessere. Costruire contesti inclusivi, infatti, significa lavorare alla realizzazione di ambienti fisici, relazionali, sociali ed emotivi nei quali ciascuno possa sentirsi il benvenuto e, dunque, sentire di “stare bene”.
Da tale punto di vista, la prospettiva offerta dalla studiosa Carol Ryff, rispetto alla definizione di benessere, appare perfettamente sovrapponibile alle azioni che caratterizzano il processo inclusivo. Senza limitarci a riduzioni di tipo medico o biologico, infatti, possiamo intendere in benessere come costrutto multidimensionale, composto da una serie di fattori che rimandano all’idea di una “buona vita”, ovviamente non limitati a sole esperienze di felicità o a emozioni positive.
Le sei dimensioni del benessere
Secondo la Ryff, il benessere si articola in sei dimensioni, la cui lettura può restituire, con estrema facilità e sintesi, il senso profondo dell’inclusione.
La prima dimensione è quella dell’autoaccettazione: sviluppare un atteggiamento positivo verso se stessi è il primo passo per ri-conoscersi e leggere, oltre ai bisogni, anche le sicurezze e i propri punti di debolezza, in modo tale da consentirci di portare lo sguardo “oltre” e “attorno” ai nostri sé. Non possiamo accettare pienamente l’altro se non accettiamo prima di tutto noi stessi!
Avere relazioni positive con gli altri è la seconda dimensione. Si tratta, in questo caso, di dare senso al contesto sociale, di costruire rapporti basati sulla fiducia, l’empatia, l’autenticità al fine di intessere una rete virtuosa di relazioni umane.
La terza dimensione è quella dell’autonomia di pensiero di azione, che in chiave pedagogica preferisco definire autodeterminazione, ovvero essere in grado di «agire come l’agente causale primario nella propria vita e fare scelte e prendere decisioni riguardanti la propria qualità di vita libera da indebite influenze esterne o interferenze» (Wehmeyer,1996, p.24).
Troviamo poi la dimensione della padronanza ambientale, che ci restituisce in modo evidente l’importanza del contesto: in relazione al benessere e, dunque, anche all’inclusione, è indispensabile riuscire ad utilizzare efficacemente le opportunità circostanti, così come adattare o creare le condizioni più funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi. Tale aspetto è particolarmente rilevante se collegato alla dimensione successiva, quella della crescita personale. “Stare bene”, infatti, vuol dire anche esprimere al massimo il proprio potenziale. Riconoscerlo, innanzitutto, per potersi poi immaginare in una evoluzione continua, in una possibilità di cambiamento sempre connessa alle dimensioni dell’autostima e dell’autoefficacia.
Infine, non certo per importanza, avere uno scopo nella vita è la sesta dimensione del benessere (e, nella mia proposta, anche dell’inclusione). Identificare la propria mission, dare un significato al proprio stare al mondo e sentire che ciò che stiamo facendo sia in linea con i principi e i valori in cui crediamo è decisivo per consentirci davvero di “stare bene” con noi stessi e con gli altri.
La multidimensionalità espressa dalla studiosa americana nella identificazione del benessere è molto efficace, a mio parere, anche per delineare le “componenti essenziali” del processo inclusivo. Ed è proprio la ricchezza che ne deriva a restituirci un dato preziosissimo: né il benessere, né tantomeno l’inclusione possono contemplare categorizzazioni. Si tratta di dimensioni universali, che prescindono dai nostri diversi funzionamenti, nella sola direzione di consentire a tutti e a ciascuno una vita piena, ricca, piacevole, armoniosa.
Ecco allora una possibile direzione da seguire: quando pensiamo ad un contesto inclusivo, pensiamo a come far sì che quell’ambiente consenta a tutti coloro che lo abitano di stare bene, di sentirsi a proprio agio e di sentirsi amati. La strada è lunga e complessa ma è quella giusta. E non si può tornare indietro!
Gianluca Amatori
Professore Associato di Didattica e Pedagogia Speciale, Direttore del Corso di Specializzazione per le Attività di Sostegno, Responsabile Scientifico delle Attività di Tirocinio del CdL Magistrale a Ciclo Unico in Scienze della Formazione Primaria, Direttore dell’International Research Center for Inclusion and Teacher Training (IRCIT) Università Europea di Roma. È stato insegnante di scuola primaria e collaboratore del Dirigente Scolastico.